[Questa è la seconda lezione vera e propria del Corso Base di Scrittura: se hai perso l'introduzione al Corso Base di Scrittura e Sceneggiatura, ti consiglio caldamente di leggerla!]
La narrativa permette di veicolare immagini, sostenere argomenti e convincere il pubblico tramite la forza delle emozioni, con più forza di quanto possa fare la saggistica appoggiandosi ad argomentazioni logiche e motivate. La drammatizzazione colpisce più della dimostrazione.
La narrativa è quindi una forma di retorica. Lo scopo della narrativa è convincere il pubblico, ma non necessariamente riguardo una data posizione ideologica su una certa questione: il pubblico prima di tutto deve essere convinto a proseguire la lettura.
Ford Madox Ford, uno dei più grandi autori britannici tra Ottocento e Novecento, disse che lo scopo della narrativa è:
[…] prendere il lettore, immergerlo nella vicenda così a fondo da renderlo inconsapevole sia di stare leggendo che dell’esistenza di un autore, in modo che alla fine possa dire e credere “io ero lì, io c’ero”.
In pratica l’assioma citato nel capitolo precedente. Come avevo spiegato è qualcosa che molte persone nel corso del tempo hanno formulato in modo indipendente perché è ovvio, è naturale. Chi non si accorge che lo scopo della narrativa è questo, dopo anni che se ne occupa, dovrebbe farsi delle serie domande.
La narrativa è quindi “retorica della dissimulazione”, come sostenne Wayne Clayson Booth in The Rhetoric of Fiction. In parole povere l’autore usa gli strumenti della narrativa per convincere il lettore a perdere tempo leggendo vicende che, lo sanno entrambi, sono false. In fondo in italiano si dice “raccontar storie” come sinonimo di “inventar menzogne”, no?
Per convincere il lettore a continuare la lettura, per permettere che rimanga immerso nella vicenda, bisogna renderla realistica o, più correttamente, “credibile”. Una menzogna credibile e avvincente.
La presenza intrusiva, invadente, dell’autore come Narratore, nel modo in cui Omero dice al lettore esattamente ciò che deve pensare di ogni personaggio incontrato oppure Manzoni si introduce come se scendesse dal cielo col megafono per commentare la vicenda, è un grave problema per un’opera che aspiri a essere buona narrativa. A discolpa di Omero, Manzoni e tanti altri, posso dire che sono venuti prima dei grandi cambiamenti nella narrativa giunti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.
Booth scriveva:
Molti romanzi sono seriamente danneggiati dalle intrusioni dell’autore.
Non si nega la presenza in sé, però. L’autore deve essere presente in altri modi, meno dozzinali: è l’Autore Implicito, il responsabile della scelta degli specifici dettagli su cui la scrittura si concentra, dei tipi di personaggi mostrati, del tono della vicenda, della scelta del punto di vista ecc. in pratica di tutte quelle cose che fanno parte dello “stile” dell’autore e che permettono di distinguere una sua opera da quella di un altro autore, anche se entrambi applicano gli stessi principi e le stesse regole.
L’autore in quanto esperto di retorica non deve però “dimostrare” qualcosa in senso generale, non deve fare discorsi sui grandi temi o su altre questioni in generale: deve “Mostrare” e convincere il lettore di qualcosa di specifico.
Se si parla di razzismo, come esempio di grande tema regolarmente annegato in un mare di banalità, l’autore non deve trattarlo in modo vago, generale, ma concentrarsi su un caso specifico con dettagli concreti, vividi.
Prendiamo il film American History X: non si parla del razzismo in generale, ma della specifica vicenda di un particolare personaggio, Derek Vinyard. Tramite il suo punto di vista capiamo la sua visione del mondo, la sua trasformazione come persona, i motivi che lo portano all’odio razziale e a decisioni di cui si pentirà. Lo conosciamo come uomo. Possiamo capirlo.
Possiamo condannarlo o giustificarlo, a discrezione del singolo spettatore, ma siamo in grado di vedere cosa lo ha portato a divenire così e chiederci se noi stessi, al suo posto, avremmo provato meno odio di lui. Facile parlare di tolleranza dal proprio posticino sicuro e senza problemi. La sua storia ci porta ad affrontare il tema del razzismo in modo più concreto, più vivido.
Come si dice spesso in narrativa:
Se vuoi parlare dell’umanità parla di un singolo uomo.
Questo vale anche e soprattutto per i piccoli dettagli. Se vuoi dire al lettore che il tal personaggio è avido, non devi dire “X è avido”: devi costruire scene che mostrino la sua avidità e suscitino nel lettore spontaneamente la consapevolezza che X sia avido.
L’Autore Implicito ha deciso come è un dato personaggio e in che modo Mostrarlo al lettore, senza scendere dal cielo col megafono per urlargli quello che deve pensare.
La narrativa moderna deve Mostrare, pur filtrando a piacere gli eventi con un dato punto di vista “non neutro”, e lasciare poi che il lettore interpreti e capisca, senza che l’Autore imponga dall’alto la sua visione delle cose (non più di quanto faccia scegliendole come Autore Implicito, intendo).
Nell’Iliade ciò che Omero ci dice dei personaggi non può essere messo in dubbio dal lettore, a cui non è possibile decidere basandosi sui fatti: il parere di Omero è per definizione la Verità sulla vicenda.
È stato proprio il passaggio dall’autore del passato (che si introduce troppo nella storia) all’autore moderno (che lascia che siano i fatti a parlare) ad aver fatto conquistare ai romanzi, nella seconda metà dell’Ottocento, quella dignità artistica che prima era loro negata.
Prima dei teorici del Mostrato come Flaubert o James, la narrativa generalmente non veniva considerata una forma d’arte importante. Non era accettata come arte perché mancavano dei criteri oggettivi condivisi per giudicarla.
La scoperta delle regole, e di conseguenza dei legami della narrativa col teatro e con la retorica, permisero al romanzo di acquisire quella credibilità e quel prestigio che a lungo gli erano stati negati. La narrativa, per essere arte, e per essere quindi buona narrativa, deve Mostrare: questo dice Booth, senza mezzi termini.
Sulle opere che ignorano le regole e preferiscono Raccontare, il parere di Booth è lo stesso di Henry James (quello del “Drammatizza! Drammatizza!”, precursore della formula “Show, don’t Tell!“), e lo abbiamo letto nel capitolo precedente: sono una brodaglia informe su cui non vale la pena sprecare tempo.
Più chiaro di così…
***
Come abbiamo visto, la narrativa è una forma di retorica il cui scopo è immergere il lettore nella vicenda così a fondo da fargli dimenticare di stare leggendo e da rendere irrilevante che la vicenda sia stata inventata dall’autore. Questa immersione avviene grazie alle immagini vivide e concrete che un buon testo evoca nella mente del lettore.
Citando The Elements of Style di William Strunk ed E. B. White, opera su cui si sono formati alcuni dei più grandi autori anglosassoni:
Se quelli che hanno studiato l’arte della scrittura sono d’accordo su una cosa, è questa: il modo più sicuro per stimolare e mantenere l’attenzione del lettore è essere specifici, chiari e concreti. I più grandi scrittori – Omero, Dante, Shakespeare – sono efficaci in gran parte perché trattano i particolari e riportano i dettagli che contano. Le loro parole evocano immagini.
Notate “i dettagli che contano”. Lo stesso Aristotele insegnò che lo scopo della retorica non è persuadere, ma Mostrare ciò che è adatto a ottenere la persuasione. Questa sottile differenza permette di capire come mai Mostrare un fatto concreto, ricco di dettagli utili e in grado di emozionare, sia più utile per convincere il pubblico rispetto a Raccontare lo stesso fatto riducendolo all’osso, senza “drammatizzarlo” per emozionare. La persuasione è il risultato dell’abile uso della retorica per Mostrare i dettagli che contano.
È un principio che si può vedere applicato ogni giorno nel giornalismo ed è alla base della buona narrativa. Come detto nella prima parte del capitolo non bisogna Raccontare che un certo personaggio è avido: bisogna mostrare la sua avidità per fare in modo che il lettore ne diventi consapevole. E per farlo bisogna scegliere i dettagli che contano, come fecero Dante, Omero e Shakespeare.
Se la narrativa è retorica e se le stesse idee di Aristotele ancora oggi sono alla base di concetti che fanno parte della narratologia, possiamo cercare proprio tra gli antichi greci e romani un buon esempio di retore.
Sia Cicerone che Cesare erano famosi per la loro oratoria e Cicerone in particolare è ancora considerato l’oratore romano per eccellenza, ma cosa lo rendeva tanto superiore ai suoi avversari?
Cicerone ai primi tempi non era un bravo oratore. Se la cavava nella Roma dominata dallo stile retorico asiano, ma era molto lontano dal poter insidiare il posto di più grande oratore a Quinto Ortensio Ortalo, massimo esponente dell’asianesimo a Roma. Cicerone fece un viaggio in Grecia (79-77 a.C.) e studiò sotto Apollonio Molone, che già aveva conosciuto alcuni anni prima rimanendone affascinato, il più grande maestro di retorica del periodo, che anni dopo istruì anche Cesare.
Grazie agli insegnamenti di Molone, Cicerone divenne una macchina da guerra del discorso: nel 70 a.C. fu l’avvocato dell’accusa contro Gaio Verre e sconfisse Quinto Ortensio Ortalo, suo difensore. Ora era Cicerone il più grande oratore di Roma.
Qual era il segreto dello stile insegnato da Molone? Il segreto di Molone era la chiarezza, la concretezza e la semplicità, ovvero la riscoperta degli elementi tradizionali dell’oratoria antica. In un mondo dominato dallo stile asiano, uno stile barocco, pesantemente aggettivato, fatto di frasi belle per il gusto del bello, termini poetici e un periodare complesso ricco di subordinate (in particolare l’asianesimo del tumor, della “esuberanza”, come lo chiama Cicerone), autoreferenziale fino al punto di perdere di vista la persuasione, Molone riportò un po’ di concretezza mitigando la semplice bellezza con la chiarezza e la persuasività dell’atticismo.
Questo vale anche per la narrativa? La semplice chiarezza batte la complessità barocca? The Elements of Style di Strunk e White è molto chiaro a riguardo:
Una prosa ricca, ornata, è difficile da digerire, generalmente malsana e talvolta nauseante.
E aggiunge:
La scrittura vigorosa è concisa. Una frase non deve contenere parole inutili, né un capoverso frasi superflue, per la stessa ragione per cui un disegno non deve contenere linee inutili, né una macchina parti superflue. Questo non significa che lo scrittore debba rendere tutte le frasi brevi, o evitare tutti i dettagli e trattare gli argomenti solo nelle linee generali, ma che ogni parola deve contare.
Come evitare di cadere nella trappola asiana? Un consiglio pratico ce lo può dare lo scrittore russo Isaak Babel:
Un sostantivo ha bisogno di solo un aggettivo, il più adatto. Solo un genio può permettersi due aggettivi per un sostantivo.
(Isaak Babel citato da Oakley Hall in How Fiction Works)
D’altronde non è difficile capire che per evitare di avere troppi aggettivi basta mettere meno aggettivi. Ma quali aggettivi è lecito mettere? Quelli che permettono di generare immagini vivide, ovvero aggettivi con una concreta attinenza sensoriale.
Per esempio “rosso” è concreto, significa qualcosa di percepibile coi sensi del personaggio che fa da punto di vista, mentre dire che un dato personaggio è “avido” non solo non dà nulla di concreto da immaginare, ma può essere anche un’intrusione del narratore nella vicenda. A meno che il filtro del punto di vista non sia così profondo, come in una prima persona, da permettere certi pensieri astratti, accettabili se ridotti al minimo.
Spostando la questione dagli aggettivi ai dialogue tag, ovvero alle formule come “disse” che introducono o seguono le battute di un dialogo, anche qui vanno scelti solo quelli concreti: “urlò” va bene, perché richiama qualcosa di concreto, sensoriale, mentre “replicò” è una schifezza perché non è legato ai sensi e risulta pure inutile perché se qualcuno sta replicando o meno è evidente dal contesto della battuta! Le parole inutili, come dicono Strunk e White, vanno tagliate.
Più elegante ancora è evitare proprio i dialogue tag, limitando i “disse” soltanto a quando non vi è altro modo di identificare chi sta parlando: che siano le azioni a introdurre chi parla. La stessa cosa vale per gli aggettivi: vanno usati con moderazione, non a mucchi.
Sempre da The Elements of Style di Strunk e White:
Scrivi con nomi e verbi, non con aggettivi e avverbi. Non è ancora stato creato l’aggettivo capace di tirare fuori un nome debole o impreciso da una strettoia.
Gli aggettivi non sono obbligatori e non rendono migliore la prosa: vanno messi solo quando davvero servono. Bisogna scegliere il sostantivo o il verbo migliore, più preciso, non scegliere il parente povero per poi modificarlo con un aggettivo o con un avverbio. Seguendo questa semplice regola gli aggettivi rimasti saranno solo quelli davvero utili in quanto chiari, concreti e specifici.
Il rischio di far sviluppare sulla tua narrativa un tumore asiano fatto di aggettivi, avverbi e parole inutili sarà così ridotto al minimo.
***
Lo stile barocco e aggettivato dell’asianesimo dopo essere stato mitigato con l’atticismo, stile concreto e chiaro, permise ad Apollonio Molone di diventare il più grande insegnante di retorica del suo periodo e a Cicerone di diventare uno dei migliori oratori di Roma, battendo facilmente chi seguiva lo stile asiano.
La componente asiana rimasta, una certa tendenza al bello per il gusto del bello, era un problema o contribuiva alla forza oratoria di Cicerone? Uno stile maggiormente attico avrebbe potuto essere migliore di questa terza via intermedia seguita da Cicerone?
Possiamo provare a scoprirlo. Demostene è considerato il più grande degli oratori ed è vissuto ben prima che la moda asiana si diffondesse. È il massimo esponente di quello stile tradizionale che i sostenitori dell’atticismo volevano reintrodurre.
Plutarco dice di lui:
Demostene riversava nella retorica quanto di razionale aveva per natura o per preparazione, superando per chiarezza e potenza i rivali.
Poi lo definisce:
lontano da ogni abbellimento e gioco, volto alla potenza e alla sostanza.
Pur non essendo come gli oratori attici del periodo di Cesare, il cui purismo nella riscoperta dell’oratoria chiara e razionale era eccessivo, Demostene ha di sicuro molto più atticismo di Cicerone. Cicerone che, ricordiamolo, rigettava la accuse di simpatia per l’asianesimo e si definiva “il Demostene Romano”.
Ma chi è il migliore tra Demostene e Cicerone?
Ce lo dice Guglielmo Audisio, maestro di eloquenza sacra nell’Ottocento:
Confrontando Cicerone con Demostene, dirò che il carattere di Demostene è l’evidenza della ragione, l’impeto e la veemenza di un’anima accesa ed eloquente; quello di Cicerone, l’ordine, la fecondità, e lo splendore dell’orazione. Il primo più aspro, talvolta secco e duro, ma più sublime e più robusto; il secondo più florido e più ornato, ma talvolta, come lo rimprovera Bruto, cascante e distemperato. In due parole: ammiro Cicerone, ma vorrei Demostene per difensore.
Quindi uno stile più semplice, con ancora meno elementi barocchi e meno “bello per il gusto del bello” (sempre che il “bello” sia definibile, cosa che è tutt’altro che scontata), è più efficace anche nell’oratoria.
Allo stesso modo, nella scrittura, inquinare la narrativa con elementi della Literary Fiction renderà scontenti sia chi cerca la prima che chi vuole la seconda. Due agende creative difficili da conciliare e impossibili da ottimizzare assieme: l’eccellenza di una va a scapito dell’altra.
Diciamo un’ultima cosa su Demostene. Gli antichi riportano che il suo stile, costruito con estrema abilità tecnica, appariva a chi ascoltava molto spontaneo, come se fosse un’orazione irruenta, emozionante, fatta a braccio. Era uno stile trasparente perché spariva lasciando solo l’effetto. Proprio come deve essere la scrittura per la narrativa secondo Ford Madox Ford, come riportato nella prima parte di questo capitolo: d’altronde la narrativa è una forma di retorica, no?
Quando qualcosa può essere letto senza fatica, grande fatica è stata fatta per scriverlo.
(Enrique Poncela)
Non si rinnega l’emozione, si rinnega solo il bello fine a sé stesso. L’inutile. Gli asiani volevano emozionare, ma si perdevano nella propria ricerca estetica e nel compiacimento della propria abilità fino a dimenticare lo scopo dell’orazione, ovvero convincere. Il nuovo atticismo invece adottava una eccessiva razionalità e semplicità, rinunciando all’emozione e seguendo la via della logica e della forza dimostrativa.
Riassumendo:
Sia nella retorica degli oratori che nella narrativa, l’obiettivo è convincere il pubblico ed emozionarlo con l’uso di una tecnica tanto perfetta da far sparire “il testo” e lasciare solo l’effetto.
***
Conoscendo la “filosofia di fondo” della narrativa non esiste alcuna giustificazione per non studiare le tecniche che permettono di ottenere il risultato. Nessuno nasce sapendo a priori come scrivere narrativa e non c’è nulla di cui vergognarsi nell’impegno e nello studio.
Dietro espressioni come “serve Talento” e “ma se uno non ha Talento” si nasconde solo la mancanza di voglia di studiare: la narrativa non è più difficile della Meccanica Quantistica o dell’Ingegneria Nucleare e tutti (incluse le peggiori teste di legno) possono migliorare con la giusta dose di studio e di impegno, se davvero sono interessati alla scrittura.
Demostene e Cicerone erano oratori tutt’altro che eccelsi prima di studiare in modo specifico la retorica con i migliori maestri. Richard Matheson, Stephen King e molti altri scrittori amati dal pubblico non hanno mai nascosto il loro debito nei confronti del classico sulla scrittura The Elements of Style di Strunk e White. Possono non piacere, e in effetti la scrittura di tanti autori famosi è spesso lacunosa, ma anche loro hanno studiato almeno un po’ per migliorare la loro scrittura.
Tu che scusa dovresti avere per non studiare?
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