Termini Tecnici e Unità di Misura

[Questa è la tredicesima lezione vera e propria del Corso Base di Scrittura: se hai perso l'introduzione al Corso Base di Scrittura e Sceneggiatura, ti consiglio caldamente di leggerla!]

 

Prima cosa a cui badare: l’uso delle parole straniere in virtù di una loro specificità. Spesso, soprattutto nei romanzi storici, ci sono parole straniere di quell’epoca e di quella cultura che rappresentano, oggi, termini tecnici di un dato settore, per esempio quello dello studio delle armi.

Per semplicità farò degli esempi sulle armi, visto che il problema affligge spesso gli autori di romanzi storici e di fantasy, anche per la scarsa affinità realmente tecnica con quest’argomento oplologico, ma gli stessi ragionamenti che vedrai nella lezione si applicano a qualsiasi altro ambito… incluso quello della storia della birra, che conosco bene.

Usa i termini tecnici in lingua straniera il meno possibile: dal punto di vista del personaggio che “vede l’oggetto” sono meno precisi rispetto al termine italiano equivalente, se disponibile e utilizzato. Suonano come visti da una persona esterna alla sua cultura e alla sua lingua di riferimento, resa da noi in italiano.

I termini stranieri divenuti ormai parte dell’italiano, di norma, vanno bene, ma dipende sempre dal caso. Se stai scrivendo un fantasy ambientato in un mondo che ricorda il nostro tardo XX secolo, come in La Figlia del Drago di Ferro di Michael Swanwick, potresti senza problemi tenere “computer”, mentre in una storia con ambientazione steampunk fantasy ispirata al XIX secolo, sullo stile del videogioco Arcanum, magari preferirai l’italiano “calcolatore” o “macchina analitica” o altre definizioni dal suono obsoleto, che all’opposto oggi suonerebbero bizzarre. Il tipo di termini che sceglierebbe un anziano eccentrico e non un ragazzino.

Chiediti: quale termine è più congruente con l’ambientazione e la cultura che vuoi comunicare col PdV? Come penserebbe il personaggio che percepisce e nomina gli oggetti? Torneremo dopo sulla scelta dei termini in base a contesto e sensazioni evocate per il lettore: ricorda per ora, comunque, che il grosso della questione riguarda l’essere ben posti nel Filtro del personaggio.

Cominciamo con un esempio semplice. Immaginiamo che il protagonista sia Alkiviades, un guerriero di Sparta. Non serve dire kopis per dire spada oppure hoplon per dire scudo. Considera che Alkiviades è il PdV e quindi lui pensa da antico greco. E tu quel pensare da antico greco lo stai rendendo in italiano. Come mai allora dovrebbe “vedere” in una lingua diversa il suo scudo o la sua spada? Se stai rendendo la sua lingua in italiano ne consegue che sottolineare apposta il greco è usare una lingua diversa. Per lui sono solo uno scudo e una spada.

Si corre il rischio di usare il PdV del “Narratore Oplologo da Dizionario”, ovvero il Narratore che vuole riportare precisi elementi non tramite il loro aspetto e i loro effetti, ma con l’eti­chetta del nome vista dalla prospettiva di un italiano del XXI secolo. La narrativa non è il Museo delle Armi di Brescia e non è l’Armeria Reale di Torino, non cadere in questo errore.

Considera anche che presso i popoli del passato, che non erano formati da collezionisti di armi antiche, molti termini venivano usati spesso, o solo, in senso generico. Per gli antichi romani gran parte delle spade era indicabile con gladius, era il loro termine generico per indicare la spada: siamo noi che abbiamo tramutato gladio in un termine specifico, in italiano, per una certa spada romana di origine spagnola.

Un discorso simile vale per katana, che in Giappone ha sia una valenza precisa, ovvero indicare un certo tipo di nihontō (termine generico per le spade giapponesi), che una valenza generica applicabile alle sciabole in generale e ad altre cose. Però se un occidentale dice katana, a differenza di un giapponese, non intende anche il concetto generico di spada leggermente curva, ma solo la katana specifica… facendo spesso, in realtà, un calderone con il suo precursore tachi o perfino con la più lunga nodachi, ma vabbè, non è il caso di parlarne qui.

Basta capire che si tratta, come è spesso il caso, di un prestito linguistico che si ammanta di una falsa precisione obbligatoria non presente nella lingua originale, e che questo fenomeno non è unico della katana e nemmeno del gladio: ne potrete trovare in diversi altri ambiti, se li conoscete a sufficienza. Già solo con l’ambito della storia della birra mi vengono diversi esempi di cambi di significato, ma sono molto tecnici e meno immediati da capire rispetto al gladio e alla katana.

Torniamo ai greci. Scudo è meglio di hoplon, anche se non tutti gli scudi sono hoplon. Conserviamo il dettaglio sul fatto che sia tondo, infilandolo dove conta, e conserviamo il dettaglio della lambda spartana, indicandolo dove conta. I dettagli precisi usati al momento giusto basteranno per dire che è un hoplon. Non serve l’etichetta. I dettagli “Mostrati” rendono preciso e concreto l’oggetto, non l’uso di etichette “Raccontate”.

Se ci pensi questi problemi linguistici sono anche molto localizzati sulla singola lingua. Un autore inglese può venire tentato di usare scutum in latino al posto di shield, cioè “scudo” in inglese, per intendere lo scudo di un legionario romano, ma per noi il latino scutum è così vicino all’italiano “scudo” che suonerebbe un po’ strano tenerlo apposta in un testo di pura narrativa… mentre sia l’inglese che l’italiano potrebbero interrogarsi, come visto prima, se usare hoplon. La parola scutum da sola può magari avere un sapore esotico che sa di mondo classico e di legionari romani, per un lettore inglese, ma di sicuro ne ha molto meno per un italiano.

Torniamo alla descrizione dello scudo di prima. Stai attento a non mettere dettagli a caso dove non dovrebbero avere posto, per esempio in mezzo a uno scambio di colpi. Se descrivi per esempio l’artiglio di un mostro che gratta la lambda sullo scudo di Alkiviades, il nostro protagonista, stai violando il PdV: Alkiviades non potrebbe vedere “esternamente” l’atto, essendo vincolato ai propri occhi ed essendo lui dietro lo scudo che impugna, e potrebbe solo sentire il suono del graffio sullo scudo che ha frapposto tra il proprio volto e l’artigliata letale del mostro.

Vedi come è facile Mostrare in azione qualcosa? Se quel qualcosa non va Mostrato in azione allora è irrilevante quindi cosa importa averlo etichettato con un nome esotico? Se invece la cosa è rilevante allora va mostrata e di conseguenza il nome esotico può perfino divenire inutile per capire cosa sia perché lo VEDIAMO in concreto cos’è. Però magari potremmo voler tenere quel nome proprio in quanto esotico, ma ci torneremo dopo.

A proposito di esotico… parliamo di frutta. Quando vai al supermercato e compri le banane, vedi due cose: le banane nei cesti, o nelle confezioni, e l’etichetta “banane” col prezzo corrente. Se togli le banane e lasci solo l’etichetta, sono ancora banane?

No, è solo una vuota etichetta, come lo è kopis per la maggioranza dei lettori. Ma se togli l’etichetta e lasci le banane, sono forse meno banane? No, perché l’oggetto Mostra sé stesso, non l’eti­chetta che lo Racconta.

Devi Mostrare la natura del kopis in azione, se è importante che il lettore percepisca quanto è lunga (ce ne erano sia corte poco più di mezzo metro che lunghe un metro), capisca che ha un filo solo e ha una punta aguzza, con la prima metà della porzione frontale della lama concava e il dorso convesso. Quanto di questo è rilevante? Cosa mostrerai? E dopo tutto questo Mostrare preferirai chiamarla spada o kopis? Chiaro come si ragiona?

Se non mi credi, ti confermo che storicamente gli stessi maestri d’arme usavano termini molto generici per le loro armi. Se leggi il manuale di scherma di Giacomo di Grassi, Ragione di adoprar sicuramente l’arme, risalente al 1570, il maestro non usa la definizione “spada da lato” (come la chiamiamo noi) o “spada da lato a striscia” o “striscia”, ma solo il semplice “spada”. Vale lo stesso per il Gran Simulacro dell’arte e dell’uso della scherma di Ridolfo Capoferro, del 1610: in particolare quest’ultimo è considerato uno dei primi manuali a occuparsi nello specifico della scherma di striscia, e non di spada da lato in generale, eppure Capoferro la chiama solo “spada”.

La spada mostrata in quei testi è chiaramente una spada da lato pensata in prevalenza per ferire di punta, e qui entriamo su una prima differenza linguistica legata alle diverse culture: gli inglesi dell’epoca preferivano il termine rapier (striscia) al mero sword (spada) in quel caso!

C’era una distinzione che nei trattati italiani non era presente, legata a questioni culturali: l’insofferenza degli inglesi per i nuovi tipi di spade lunghe e sottili diffuse dai maestri italiani che stavano invadendo l’Inghilterra. George Silver in Paradoxes of Defence del 1598 indica con sword la tradizionale spada militare usata dagli inglesi, ottima per tagliare e spaccare ossa, e la distingue in modo netto dalla lunghissima e sottile rapier italiana… e non si fa problemi a esibirsi in sbruffonate, come dire che sia più pericoloso un singolo inglese armato di spada che dieci italiani con le strisce.

Naturalmente essendo nel tardo ‘500 la spada inglese a cui si riferisce Silver ha già le caratteristiche di una “spada da lato” del primo periodo, con la lama ancora ben bilanciata per il taglio, e con dei rami difensivi sulla guardia, che non quelle di una semplice spada medievale con l’elsa a croce.

Nonostante fossero precisi nel distinguere tra la spada tradizionale e la striscia, gli inglesi del tempo di Silver quando usavano rapier spesso mettevano nel calderone spade del tardo ‘500 ancora classificabili da noi come “spade da lato”, ma con lame vocate più per la punta che per il taglio, e non solo le vere e proprie “spade da lato a striscia” buone quasi solo a perforare, eppure queste sono due categorie di spade differenti, con usi differenti, per noi oggi… ma ci sono molti gradi di transizione dalle prime spade da lato con le lame massicce fino alle strisce più lunghe e sottili, e non è sempre possibile distinguere in modo netto i modelli collocati nel pieno del passaggio da uno stile di spada all’altra. Modelli intermedi hanno popolato tutta la seconda metà del ‘500 e il ‘600.

Io stesso tra le spade che possiedo ne ho una da lato collocata pienamente nella transizione verso la striscia: è la prima che ho comprato quando ho iniziato a fare scherma storica, affascinato dai modelli con pesanti cocce a conchiglia per difendere le dita e lame robuste, ma strette, col peso bilanciato sulla coccia e quindi vocate alla supremazia della punta. Ottima spada, se non fosse che il mio stile personale negli scontri liberi si è evoluto portandomi a un uso molto maggiore dei tagli rispetto a quanto pensassi inizialmente, per cui ormai il suo orientamento per i colpi di punta mi sta un po’ “stretto”.

Ci sono poi altre questioni problematiche in italiano sulla definizione di striscia. C’è quella puramente storico-oplologica di striscia come spada da lato caratterizzata dalla lama lunga e sottile e poi c’è la definizione funzionale di striscia legata anche al tipo di guardia, magari con l’elsa a coppa tipica delle strisce spagnole del ‘600, e alla possibilità quindi di impugnare l’arma agevolmente tenendola parallela al suolo senza esporre la mano ai colpi di punta avversari… ma sono diatribe specialistiche che non riguardano un corso di scrittura.

Tornando alla basilare differenza tra una spada da lato e una striscia, possiamo dire che la prima garantisce ancora buoni tagli, seppure spesso non sia così vocata al taglio come poteva esserlo una spada da cavaliere del tempo di Dante Alighieri, mentre la seconda di norma si limita a tagli più leggeri e talvolta solo a tagli dati usando la punta.

Gli inglesi di oggi quando vogliono essere più precisi indicano queste spade da lato idonee sia al taglio che alla punta come sword-rapier oppure come side-sword (spada da lato, letteralmente, come diciamo in Italia), ma nel linguaggio del ‘700-‘800 venivano indicate talvolta addirittura come broad sword (spadona) per distinguere queste armi dritte a due fili dalla sciabola curva con un filo solo e dagli spadini dritti del ‘700…

Già, in rapporto all’esile spadino del ‘700 una spada da lato sembrava una spada bella larga, ma ci rendiamo ben conto che non regge il paragone con una schiavona veneziana o con una claymore scozzese con elsa a cesto, a sua volta da non confondere con la claymore a due mani… o con le famose mine antiuomo americane del XX secolo. E in poche parole abbiamo trovato già tre diversi significati per claymore in base al secolo di riferimento. Meraviglie della polisemia.

Perché tutte queste lunghe spiegazioni e precisazioni, solo apparentemente non connesse a un corso di scrittura? Per farti capire che il linguaggio reale è tutt’altro che preciso o idoneo all’archiviazione in un museo, e cambia in modi sorprendenti col tempo e il contesto. Il mondo è molto più complesso e confuso della sezione sulle armi nel manuale di un gioco di ruolo o delle etichette in un museo: c’è ben poco spazio per le certezze linguistiche e i termini univoci.

La tua scrittura per essere vera, reale, dovrà sia essere chiara e precisa, Mostrando gli oggetti in azione, che riflettere questo confuso realismo di etichette Raccontate.

In fondo “spada da lato” è una definizione moderna, all’epoca usata al più per indicare la collocazione della spada al fianco del gentiluomo, come parte del suo vestiario cittadino, che non una specifica spada fatta in un certo modo. Non avevano bisogno di classificare le armi: sapevano benissimo come era fatta una tipica spada dei loro tempi.

Nel manuale Rules and regulations for the sword exercise of the cavalry del 1796 si parla solo dell’uso della specifica nuova sciabola per la cavalleria, con una specifica elsa che favorisce certi movimenti della mano in parata, ma il termine è sempre e solo sword.

Tecnicamente non è nemmeno perfetto indicarla con “spada”, termine di solito usato per lame dritte con il filo da ambo i lati, ma sarebbe più preciso indicarla con “sciabola” avendo un filo solo e pure la lama curva. Quindi sabre, non sword… ma il mondo reale non è un Museo sulle armi e non è un discorso di oplologia da forum su internet, chiaro? Quindi loro, all’epoca, nel loro manuale militare, scrivono sword e se non ci sta bene peggio per noi e tanti saluti dal 1796.

Nel manuale hanno Mostrato a quale spada si riferiscono descrivendola all’inizio e disegnandola nelle illustrazioni annesse, per cui l’etichetta Light Cavalry Sabre Pattern 1796, che era il nome ufficiale di quell’arma e l’unico davvero corretto per indicarla, non viene ovviamente mai usato. Apprezziamo però che almeno nel nome ufficiale, quello adatto solo a un saggio di oplologia, ci sia “sciabola” (sabre).

Nessuno userebbe mai il nome ufficiale di quell’arma in una scena d’azione: è solo una sciabola o una spada e se questo non la distingue a sufficienza dalle sciabole dritte dei corazzieri francesi (che, tra parentesi, tecnicamente hanno lame da “costoliere”) o dalle altre sciabole curve di altre unità di cavalleria, chissenefrega! Saranno i dettagli concreti mostrati in azione a fare la differenza, se serve, e non le etichette!

A noi appassionati di oggi “spada da lato a striscia” può sembrare un nome tecnico essenziale per descrivere certe spade, ma all’epoca non lo era… non lo usavano come lo usiamo noi perché la loro prospettiva era di chi vive nell’epoca, non di chi la percepisce confrontandola con secoli precedenti e successivi, vedendo le “spade” come oggetti storici in evoluzione e non come attrezzi della propria vita.

Io stesso pensando a un romanzo ambientato nel ‘600, con gli spadaccini, non avrei problemi a scriverlo tutto senza usare mai il termine “striscia” per le spade… perché conosco l’argomento e come rendere il modo di usare le spade e gli aspetti tecnici salienti da Mostrare in azione.

Alla fine sempre all’essenza del Filtro del personaggio si arriva: devi conoscere l’argomento ed essere in grado di divenire il personaggio, altrimenti non avrai dettagli concreti da scrivere e non saprai in che modo, davvero, si esprimerà e percepirà il mondo. Se la tua mente è vuota, sarà vuota anche la tua narrativa… e si riempirà di etichette.

Ricorda anche che l’iperprecisione dei termini e delle misure interna al testo talvolta può portare a risultati davvero grotteschi. Immagina se il romanzo di Alkiviades, lo spartano di inizio lezione, cominciasse con:

Tracia, Monti Rodopi, ottobre, 376 a.C.

Va bene che sarebbe una precisazione extra-narrativa del Narratore, quasi come l’uso di una citazione letteraria o musicale in apertura capitolo, ma quel riferimento all’Avanti Cristo ci butta totalmente fuori dalla vicenda storica. La percepiamo subito a posteriori.

Mi immagino Alkiviades chiedere al compagno Likeios:

«Coso, ma quando arriva a zero che succede?»
«Non abbiamo lo zero, ce lo passeranno gli arabi dai cinesi tra un migliaio di anni. Va da un uno a un altro uno.»
«Ah, scusa. Ma poi cosa significa a.C.?»
«Forse a Corinto…»

Se qualcuno sta pensando “Vabbè, ma che esempio assurdo!” gli comunico che allora non ha un’esperienza adeguata di romanzi storici. Magari li scrive anche, ma non li conosce davvero. Basta aver frequentato in questi anni le librerie per trovare, tra le novità pubblicate, dei romanzi storici ambientati nell’Antico Egitto con indicazioni delle date riferite all’Era Cristiana all’inizio dei capitoli.

Già. Ciò che potete pensare, a mente fredda, come un’assurdità iperbolica, spesso invece è la banale verità editoriale: non l’avete ancora capito che il settore, là fuori, ha dei livelli qualitativi bassissimi? La gente non legge per validissimi motivi. Ve lo ripeterò finché non vi entrerà nel cervello: se non capirete questo, non potrete mai assumere la prospettiva mentale necessaria per elevarvi a livelli davvero professionali di scrittura.

Torniamo ai termini tecnici. Meglio usare i termini molto specifici solo quando necessario. Per esempio qui potrebbe andare bene:

Gli ipaspisti si erano tolti l’elmo e slacciati le armature.

Il lettore si trova ipaspisti, sa che sono greci e che hanno elmi e armature… e immagina dei generici opliti da libro di scuola o del videogioco Age of Empire o visti in un film. Ha immaginato sufficientemente giusto, quindi il nome tecnico è ok e val la pena lasciarlo. Però non è il modo ideale di comunicare i nomi.

Sarebbe meglio che Mostrando queste persone in azione noi capiamo cosa li renda ipaspisti: se il loro essere tali non è rilevante per la storia e non li distingue da altri greci, allora abbiamo un problema di inutilità del termine tecnico. Ok?

La cosa migliore di tutte è prima vederli in azione, con le loro armi e armature, e solo dopo dotarli di un nome tecnico. Va bene anche solo vederli sostare, togliere gli elmi e deporre i pesanti scudi tondi: un po’ di dettagli che ci diano l’idea, a grandi linea, di opliti. Ancora meglio se addirittura possiamo vederli in un’azione di incursione che dia l’idea chiara che sono reparti più mobili e versatili dei classici opliti. L’etichetta può arrivare in simultanea con i dettagli, in base al caso. In ogni caso prima pensa a comunicare i fatti, poi pensa alle etichette.

Sono perfetti il generico “elmo” e il generico “armatura”, non serve il nome tecnico specifico del loro elmo (elmo calcidico oppure quello corinzio, con l’aggravante del termine moderno, “museale”, per descriverli) e non serve nemmeno il nome tecnico della loro corazza (la spolas oppure la diffusissima, ed eccellente contro lame e lance, linothorax… sì, non vi dico le differenze tra le due così potete apprezzare come Raccontare etichette comunichi bene le cose, eh!).

“Elmo” e “armatura” vanno benissimo così: il motivo per cui si sceglie un termine è perché è quello più adatto a mostrare qualcosa, ovvero quello che risulta più chiaro… non importa se è meno tecnico e meno specifico! Pensa alla Light Cavalry Sabre Pattern 1796 col suo nome ufficiale inutilizzabile nel mezzo di un duello in cui le parole devono comunicare adrenalina, rapidità e tensione!

Usa i termini tecnici ignoti al pubblico non specialistico solo quando sei costretto a farlo per motivi di coerenza del PdV: per esempio se il PdV è un motorista che sta riparando la turbina a vapore di una cacciatorpediniera, allora tre o quattro termini tec­nici non solo non stoneranno, ma daranno l’idea ai lettori che tu abbia studiato bene l’argomento.

Il che non fa mai male, lo dice anche Chuck Palahniuk: è la credibilità legata alla conoscenza dimostrata… ma va usata con saggezza, senza mai infarcire di termini astrusi la narrazione col rischio di rovinare tutto!

Un lettore competente su quell’argomento capirà subito se ne sai qualcosa, quanto basta per guadagnare la sua approvazione, o se stai bluffando spaventosamente, come se fossi una guida che racconta ai turisti che i pila erano speciali bacchette con cui i nobili romani mangiavano sashimi nel Colosseo. Mostra al lettore che conosci l’argomento, non che sai scopiazzare qualche parola senza capirla.

L’ideale è che dal contesto si comprenda sempre a cosa il termine si riferisce. E ricorda: è sempre meglio prima Mostrare la cosa, facendo capire vagamente cos’è, e solo dopo darle il nome tecnico che quasi sicuramente il lettore non conosceva, e magari aggiungere dettagli che rendano ancora più chiaro tutto. O al massimo infilare termine tecnico e descrizione in un flusso in cui non facciamo in tempo a chiederci “che vuol dire quel nome?” che già ci appare la risposta Mostrata. Meno parole separano il termine tecnico dalla descrizione e meglio è.

Esempio:

Ridolfo strinse con entrambe le mani l’asta dell’alabarda, la strappò dallo stomaco del vecchio francese e la alzò al cielo. Il sangue scese dalla lunga punta acuminata fino alla lama d’ascia e gocciolò a terra.

L’indicazione dell’asta colloca subito l’arma in un contesto, armi inastate, e il lettore può già iniziare a visualizzare qualcosa, le mani che stringono l’asta e, visto che era infilzata in uno stomaco, la punta, anche se non conosce tutto il resto. Abbiamo guadagnato tempo dando un primo dettaglio esplicito e un secondo implicito, ancora prima di chiamare in causa l’etichetta, e completeremo la descrizione subito dopo. Etichetta e flusso descrittivo qui arrivano in simultanea, col flusso di dettagli che avvolge l’etichetta prima e dopo per accompagnare la comprensione del lettore.

Se dalle frasi subito precedenti avevamo già reso chiaro che stiamo per parlare di armi inastate, possiamo anche evitare il riferimento all’asta e limitarci a dire “strappò l’alabarda”. In ambo i casi, col resto dell’azione, abbiamo comunicato al lettore che l’alabarda è un’arma inastata con una bella punta e una lama d’ascia. Non siamo entrati su altri dettagli, come l’uncino posteriore con le tacche per intrappolare al suolo le picche: ora non serve dirlo, l’importante era che il lettore avesse un appiglio visivo concreto e ora ce l’ha.

Più o meno tutti i lettori sanno cosa sia una generica spada o un’ascia (che, di norma, tecnicamente sarebbe una scure), ma non tutti sanno com’è fatta un’alabarda e taluni possono confonderla con una picca. Pochissimi sanno distinguere cosa sia un roncone, arma inastata molto diffusa nelle fanterie del tardo medioevo italiano.

Se abbiamo il timore che l’alabarda sia troppo tecnica, perfino se il nostro pubblico è quello dei romanzi con ambientazioni medievaleggianti, basta davvero poco a far capire cos’è… e questa volontà di Mostrare gli oggetti in azione ci stimola a descrivere meglio, con dettagli solidi!

Torneremo sulla questione dei termini da scegliere e sull’esempio della sala macchine nel Corso Avanzato. Non vuoi perderti quella lezione, te lo assicuro: è stata una di quelle più sconvolgenti per gli autori che ho istruito e portato alla pubblicazione, vitale nel riformulare i paradigmi sbagliati con cui vivono la scrittura. Quella lezione da sola può farti risparmiare anni e anni di errori e incomprensioni.

Torniamo ai termini stranieri. Calibra il loro uso per sfruttarli quando questi permettono di dare un certo sapore all’ambientazione… o quando non hanno un possibile corrispettivo soddisfacente in italiano. In ambo i casi stai bene attento che si capisca cosa significano, cosa indicano, appena appaiono, come indicato prima con gli altri termini tecnici.

Magari nel tuo testo sui giapponesi vuoi tenere shōgun, come terrai samurai (ormai prestato all’italiano da decenni), perché è un termine ormai ben noto e perché non abbiamo una traduzione ideale che comunichi il senso della cosa al meglio senza aggiungere sfumature sgradite. Allo stesso modo magari terrai perfino daimyō perché è facile far capire cosa si intende e ti piace il sentore esotico del termine… ma l’Imperatore probabilmente lo chiamerai Imperatore: non c’è bisogno di usare Tennō, termine che magari suonerebbe strano per un lettore italiano.

Siamo abituati a riferirci agli Imperatori giapponesi come Imperatori, nella lingua comune. Per esempio James Clavell nel romanzo storico Shōgun ha tenuto shōgun e daimyō, ma ha preferito usare Emperor nella versione originale inglese e noi abbiamo Imperatore in quella italiana. L’ho portato solo come esempio di romanzo molto famoso d’ambientazione storica, non per la scrittura o per la correttezza storica… ma il campo dei romanzi storici è tristemente famoso per l’essere popolato da opere troppo spesso “storicamente corrette” quanto un fantasy medio. Ci torneremo in futuro, fuori dal Corso Base.

All’opposto puoi decidere di mantenere Kaiser per l’Imperatore Tedesco all’epoca della Grande Guerra o Zar per quello Russo, per abitudine a conservare i termini stranieri in italiano in questi casi. Ciò non toglie che in ambo i casi si usasse anche Imperatore, un po’ a piacere… un po’ come nell’Ottocento in Italia si balzava dal Lei al Voi o dal Voi al Tu anche da una frase all’altra, senza farsi troppi problemi. Di sicuro facendosi molti meno problemi di quanti se ne farebbe uno scrittore oggi...

La scelta tra termini italiani, italianizzati oppure stranieri può variare sia per il bisogno di dare un sapore esotico per il lettore, nonostante per il personaggio siano parole normalissime (katana, per esempio), sia per l’abitudine che il lettore ha nel leggere certi termini o altri.

Per esempio, se stai scrivendo un romanzo con gli antichi romani è facile che terrai gladio al posto di spada per intendere le spade dei romani (in versione italianizzata così, non in latino originale), ma metterai la traduzione scudo al posto di scutum e magari conserverai caligae in latino perché, a tutti gli effetti, quelle robe dei soldati romani non sono né sandali, che i romani usavano in altri ambiti, né stivali militari in senso moderno, ma un incrocio tra i due difficile da rendere… e in più è una parola che il pubblico dei romanzi storici con gli antichi romani si aspetta e conosce.

Qui, al di là della regola generale del chiedersi se serva, se fornisca quel “gusto” diverso al testo, e se da come Mostriamo la cosa prima di nominarla è ben chiaro cosa sia, bisogna regolarsi anche sulle abitudini del pubblico che legge in una data lingua per quanto riguarda le opere ambientate in quel periodo storico.

Non si può improvvisare: bisogna conoscere le buone norme di scrittura, l’epoca e la cultura di cui si parla… e anche le abitudini di chi legge, ovvero il mercato in cui ci si inserisce. D’altronde se vuoi scrivere romanzi di ambientazione storica di sicuro ne hai anche letti parecchi, a sufficienza per esserti fatto l’orecchio sulle pratiche più diffuse, no? Se non è così, se non ti importa nulla di quei romanzi storici, perché dovresti volerne scrivere uno?

Problema ancora più complesso è quello delle unità di misura. Qui non puoi semplicemente tradurle perché anche se gli antichi romani ci hanno insegnato che si può tradurre tutto nella propria lingua e nelle proprie misure, i lettori moderni quando leggono di cose antiche possono avere i cram­pi di fronte al Sistema Metrico.

Il problema complementare è che, a meno di non stare leggendo l’Anabasi di Senofonte e quindi avere accettato che non tutto sarà sempre chiarissimo perché è un documento storico, i lettori hanno i crampi anche di fronte alle unità di misura che non riescono a capire perché il testo non le rende abbastanza chiare… quindi che fare?

Ti mostro come ragionare con un esempio. Tra le unità di misura dei greci antichi c’è l’akaina, pari a dieci piedi… perfetto: usiamo sempre e solo i piedi. Come, ti piaceva l’akaina? Scordatela! Il piede è un’unità più sensata, essendo più piccola e quindi di maggiore uso comune. Dieci o venti piedi invece di una o due akaina sono perfetti.

Il piede lo capiscono tutti, è lungo effettivamente come un bel piedone (trenta centimetri), ed è identico al corrispettivo inglese che parecchi potrebbero già conoscere. Lo stesso discorso dell’akaina vale per il plethron: che male ci sarebbe a dire cinquanta piedi al posto di mezzo plethron?

Alcune misure di uso molto comune si prestano bene a sostituire i nomi corretti delle versioni maggiori: anche noi diciamo regolarmente “cento metri” al posto del più preciso “ettometro”. Se scrivi ettometro il lettore lo troverà strano, obsoleto e forse ridicolo (e talvolta non sarà nemmeno sicuro di che lunghezza sia). Eppure è un ordine di grandezza delle lunghezze che fa parte del nostro linguaggio!

Con plethron addirittura sei sicuro che il lettore non capirà cosa intendi. L’unico motivo per cui si scelgono le parole è per evocare chiaramente immagini nella mente del lettore: non ha senso scrivere parole che sono solo parole vuote per chi legge, e non portatrici di significati.

Naturalmente, come avrai intuito già, il problema non è solo nel nome, ma è concettuale. Quasi sempre potrai e dovrai evitare di usare le unità di misura per motivi che vanno ben oltre la comprensibilità dei nomi!

Quando vedi qualcosa, non vedi etichette con scritte le unità di misura. Citarle puzza di Narratore. È desumere a posteriori un qualcosa da ciò che si è visto. Puoi farlo (ma con parsimonia) senza violare il precetto di verosimiglianza della narrativa solo se è parte di un pensiero del personaggio PdV o se ogni cosa è filtrata così profondamente dal PdV (scelta ideale, la più difficile) che realtà e parere si mischiano in modo indissolubile. Ricorda comunque che è un cattivo modo di descrivere, anche se quando fatto con queste basi non è fuori PdV.

L’ideale rimane sempre trovare un modo per far capire le distanze senza usare le unità di misura. D’altron­de noi stessi nella nostra vita non le vediamo, e le misure diventano una stima ragionata dopo la percezione. Prima percepiamo e dopo pensiamo una misura. Seleziona dettagli che rendano comprensibili le cose senza spiattellare il Raccontato riguardo “quanto una cosa è lunga rispetto a una data unità di misura”.

Se ti serve dire che la porta incontrata da Alkiviades sembra quella di una casa di gnomi perché è alta mezza akaina, allora ti serve in virtù del suo essere bassa… bingo: quindi mostra il personaggio che per entrare deve chinarsi o di’ che la porta gli arriva ai capezzoli o metti un commento sul fatto che è una porta da nanerottoli.

Basta che non dici al lettore di immaginare un bastone lungo una akaina, poi spezzarlo in due parti uguali e quella è la misura… perché dicendo “mezza akaina” stai dicendo proprio quello, letteralmente. Ricorda quando il metro era una barra di metallo per davvero e non il tempo di percorrenza della luce in certe condizioni.

Non dire che una strada è larga quattro akaina, di’ che quattro grossi carri potrebbero viaggiarvi affiancati senza problemi: è sempre un paragone, ma è più concreto che chiamare in causa nomi obsoleti e riferiti a concetti ignoti al lettore. Però evita i paragoni fuori contesto: perché il Punto di Vista dovrebbe pensare ai carri se la strada è vuota? Facile che ci pensi se la strada è affollata e se in effetti c’è un andirivieni di carri carichi di merci. Vede e pensa.

Lo stesso discorso vale per l’abitudine malsana di sostituire ogni misura di larghezza con un certo numero di uomini affiancati: perché diavolo il protagonista dovrebbe pensare “largo come due uomini” guardando il tronco di un enorme albero? È perfino meno sensato che dire direttamente “un metro e mezzo” o “due metri”. I pensieri devono essere connessi all’esperienza e un tronco non evoca immediatamente le persone, come una strada non evoca in automatico dei carri.

Come hai visto prima con i carri, nel caso del tronco potremmo avere proprio un personaggio appoggiato di schiena contro l’albero e il tronco è così largo che ne copre meno di metà. Da questo primo pensiero del PdV che vede il personaggio possiamo poi procedere con altri dettagli, guidando i movimenti del suo sguardo verso le grosse radici, tra cui si annida uno gnometto che si masturba furiosamente, col naso in su e lo sguardo puntato verso le fronde, e da lì procedere in alto verso gli enormi rami dove si trova un’elfa a cavalcioni, che si morde il labbro e struscia l’inguine sul legno, strizzandosi le tette sotto la camicetta. E con questi bellissimi esempi che mi sono venuti in mente ora sai perché è meglio che non scriva mai un fantasy…

A proposito dello gnometto: come rappresenteresti la sua piccolezza se, per esempio, avesse le dimensioni di un coniglietto? Potremmo, in una discarica, farlo fuggire per la paura dentro un vecchio stivale sfondato: se deve gattonare a quattro zampe per nascondersi dentro, capiamo che non è così basso da procedere a testa alta. Nella foresta, se il grande albero ha radici che spuntano dal suolo grosse come gambe, potremmo avere lo gnometto che fa capolino da dietro una di queste, si accorge di essere stato visto e si abbassa subito. Magari rimane visibile solo la punta del suo cappello rosso a cono.

Se viene visto abbastanza bene dal protagonista puoi benissimo paragonarlo ad altro: è naturale pensare che sia piccolo come uno scoiattolo o come un gatto o quale che sia un paragone naturale adatto alla dimensione scelta. In un contesto moderno potrebbe essere alto come una bottiglia di birra. Potremmo letteralmente vederlo poggiato con una spalla contro una Peroni da 66, con la punta del cappello a cono che a malapena arriva al collo del bottiglione. Cose così. Dipenderà da storia a storia e da scena a scena quali paragoni e quali occasioni di comunicare le dimensioni funzioneranno meglio.

Torniamo agli antichi greci. Cosa faresti se il lettore leggendo akaina pensasse qualcosa sui venti metri? Vuoi davvero che immagini che la tua strada sia una mostruosità larga ottanta metri? E magari penserà pure che sei scemo?

Per esempio, se Alkiviades sale su una piramide colossale, come una montagna, e scrivo questo:

La scalinata ripida si perdeva nella nebbia lattiginosa. Sopra, in lontananza, si iniziava a scorgere nella foschia la fortezza di Marduk; sotto, invisibile, si stendeva Babilonia, a diverse decine di stadi di altezza.

[Segue descrizione della giungla cresciuta sull’im­mensa piramide, degli insetti tropicali, del caldo che fa scendere torrenti di sudore sotto elmi e corazze.]

Non c’è bisogno di dire che sono a “prendete 180-190 metri circa e moltiplicate per X decine con X ignoto maggiore di 2”, ovvero a TOT decine di stadi. Mettiamo che le diverse decine di stadi siano soltanto quattro e mezzo (un po’ poco per un “diverse”, ma voglio essere buono) e che quindi siano pari a oltre ottomila metri (45 stadi da 185 metri) ed ecco servito l’Everest…

Ecco, se uno ha capito cosa l’autore intendeva dire con stadi starà pensando “Ma che caldo e caldo, quelli staranno gelando a venti gradi sottozero e saranno mezzi collassati per la mancanza di bombole di ossigeno!” e il rispetto che il lettore aveva verso l’autore, così bravo fino a quel momento a informarsi, viene incrinato.

L’autore magari non sapeva niente di montagna ed è cascato nell’errore, oppure per sbadataggine non ha fatto i conti e in realtà si immaginava duemila o tremila metri e non di più. Ho perso il conto di tutti gli autori, o le persone in generale, che non si fanno mai i conti prima di tirare fuori dei numeri (anche nel marketing). Perché rischiare brutte figure armeggiando goffamente con le unità di misura?

Se il caldo è importante perché gli Dei agiscono sul clima e sulle temperature, e già prima abbiamo saputo che amano trasformare le loro dimore colossali in posti tropicali, allora va bene… ma dobbiamo averlo fatto capire prima che il lettore possa dubitare delle nostre facoltà mentali!

Se invece ci si preoccupa solo dell’effetto, dell’imma­gine nella mente del lettore, limitandoci a dire che Alkiviades vede Babilonia ridotta a una distesa irriconoscibile di edifici che si intravedono appena, il lettore penserà che siano almeno duemila metri.

Enormi, altissimi, giardini pensili incredibili grandi come montagne… ma accettabili in un romanzo fantasy vagamente storico senza dover pensare che l’autore stia solo sparando castronerie, come accadrebbe invece con gli ottomila e più metri buttati lì senza spiegazioni fantastiche e senza bombole di ossigeno. Vale comunque l’idea già spiegata di rendere più comprensibile la questione, con magari la sua giustificazione fantastica, prima che l’alti­tudine aggiunga problemi.

Alkiviades naturalmente deve dire (nelle battute o nei pensieri diretti) che un certo posto è distante venti stadi invece di tre chilometri e mezzo quando è costretto a indicare la distanza, ma al di fuori dei dialoghi o dei pensieri diretti è meglio evitare del tutto le unità di misura, sia quelle note che quelle ignote al lettore.

E bada bene a non usare i pensieri come scusa per spiattellare le misure: il poter usare le unità di misura nei pensieri non è una scusa che permette di evitare di Mostrare correttamente le dimensioni usando descrizioni e azioni. Ricorda quanto spiegato prima!

Un cecchino, durante una valutazione per un tiro su lunga distanza, può stimare che il bersaglio è a 850-900 metri e che la velocità del vento è approssimativamente di 15 km/h, ma questi pensieri possono essere proposti solo perché lui realmente, in quel momento, sta usando delle cifre nella sua mente per calcolare come regolare gli organi di mira e compensare i fattori in gioco nel tiro.

Pensa sempre e solo a come davvero uno penserebbe a qualcosa. Le cifre e le unità di misura, come anche i termini tecnici, sono semplicemente un’altra parte dei normali ragionamenti sulla gestione del PdV del personaggio. Riportaci la sua esperienza reale e i suoi pensieri reali, e usa cifre e misure solo quando anche lui realmente, nella sua vita, le userebbe esplicitamente.

La vita è fatta di sensazioni concrete, non è fatta con le tabelle per il combattimento di un gioco di simulazione tattica: quando non fanno davvero parte dei pensieri del PdV, lasciamo i numeri al Navigatore GPS e a Google Maps.

Tutto chiaro?

 

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