Le Scelte Morali

[Questa è la quinta lezione del Corso Base di Sceneggiatura: se hai perso l'introduzione al Corso Base di Scrittura e Sceneggiatura, ti consiglio caldamente di leggerla!]

 

Torniamo alle scelte che il personaggio fa per raggiungere l’o­biet­tivo. Le scelte sono fondamentali, come detto, per non farlo apparire passivo, per fare in modo che il suo agire incida sul mondo della narrazione, e più sono forti e chiare le conseguenze, più il lettore sarà “preoccupato” quando il personaggio prenderà una decisione.

Se il lettore si affeziona a diversi personaggi e se ognuno di questi, per il proprio bene (e magari in buona fede), prende decisioni che è evidente causeranno danni agli altri, meglio ancora. Il lettore sarà sempre sulle spine e ogni ipotetico trionfo di uno di loro gli farà subito temere le ripercussioni sugli altri. Qualcosa di simile accade nella serie di romanzi di successo Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin.

Ora domandiamoci come le scelte del personaggio si ricolleghino al discorso sulla natura retorica della narrativa. Booth ce lo dice: la parola chiave è “morale”. La scelta del personaggio deve essere morale. Ma cosa significa morale?

Booth venne accusato, dopo la prima edizione di The Rhetoric of Fiction, di intendere la scelta perbenista, moraleggiante in senso negativo. Non intendeva questo e infatti chi lo accusava dimostrò semplicemente di non aver letto con attenzione. Mio eufemismo per dire che bisogna vivere dentro la gabbia delle scimmie urlatrici per capire una stronzata simile dopo averlo letto…

Booth, nella seconda edizione dell’opera, dedicò un paio di pagine aggiuntive per chiarire meglio la questione anche a quei suoi colleghi più distratti che gli attribuivano concetti che non aveva espresso. Scusa se lo ripeto, ma la gente che si inventa concetti non presenti in un testo è proprio roba da gabbia delle scimmie.

Tornando a Booth, la parola “morale” non indica l’osservanza o meno dei dieci comandamenti o di chissà quali norme inviolabili di comportamento. La parola “morale” è stata scelta perché è l’unica che permetta, in inglese perlomeno, di trasmettere il senso dell’originale greco: la scelta giusta.

Ma giusta in che senso? Giusta nel senso che il lettore deve ritenere che sia la scelta che il protagonista dovrà fare. E dove sta la retorica? Semplice: non vi è nessun vanto nel convincere i lettori che salvare una ragazza dagli stupratori in un vicolo sia morale, né vi è nel far pensare ai lettori che aiutare una vecchietta a salire le scale sia morale… è troppo facile!

Ma quando allora vi è vanto? Quando si fa in modo che i lettori vogliano che il personaggio faccia qualcosa che solitamente sarebbe considerato negativo, malvagio, magari pure criminale.

È morale (e retoricamente interessante) quando il personaggio poliziotto “duro e capace” (tipo il detective Vic Mackey di The Shield) sceglie, convintissimo lui e convintissimi gli spettatori che hanno vissuto tutta la vicenda tramite il suo filtro distorto, di inserire sacchetti di eroina nella casa di un presunto spacciatore per incastrarlo.

Morale è quando i lettori sono convinti (stesso meccanismo) che il poliziotto faccia bene a torturare un tizio, con il consenso silenzioso dei colleghi che lo lasciano solo, perché è chiaro che quello là è un pedofilo e solo pestandolo sputerà fuori dove ha nascosto la bambina rapita. Di certo il pedofilo non tornerebbe nel nascondiglio per timore di essere incastrato dalla polizia… e si salverebbe lasciando morire la bambina di stenti, sepolta viva in chissà quale scantinato.

Questo però non vuole dire che bisogna per forza convincere il lettore che il male è bene solo per esercizio retorico. Si può fare qualcosa di più interessante, di più potente: ribaltare di nuovo il tavolo.

L’apice, la vera potenza retorica della narrativa, sta nel guidare il lettore con soddisfazione nel desiderare e accettare il male… e poi sbattergli in faccia l’errore. Il che permette pure un ottimo modo di ottenere una svolta narrativa costruita senza veri colpi di scena, perché semplicemente si raccoglie il male che si è seminato scambiandolo per il bene. Parleremo nel Corso Avanzato del concetto di hamartia aristotelica.

Torniamo all’esempio del poliziotto: alla fine il presunto spacciatore era innocente, ma finirà in carcere lo stesso. Ulteriore scelta morale: il protagonista poliziotto invece di confessare il proprio crimine tace e sacrifica, per il bene superiore della sua lotta contro il crimine, l’innocente, perché se confessasse salvandolo tutti i suoi casi precedenti verrebbero riesaminati e centinaia di criminali tornerebbero liberi. Questa, se ricordo giusto, c’era proprio nel telefilm The Shield.

Oppure il poliziotto può scoprire che il presunto pedofilo alla fine non era un pedofilo e si trova il vero colpevole. Ha torturato il presunto pedofilo? Lo ha ucciso settimane dopo, convinto che abbia fatto morire la bambina? Lo ha messo alla gogna in qualche forma anonima, causandogli il divorzio e la perdita del lavoro come insegnante elementare?

Oppure lo ha fatto finire in galera per un breve periodo incastrandolo per altro e poi ha fatto girare la voce tra i carcerati che fosse un pedofilo – e magari ha messo pure una taglia tramite un amico in carcere – per farlo assassinare?

Cosa succederà quando scoprirà di aver fatto morire un innocente? Evolverà in meglio, servirà a cambiarlo? O lo colpirà peggiorandone il carattere, rendendolo ancora più duro e disumano, radicalizzandolo nel proprio percorso tragico di errori (propri) e sofferenze (altrui)?

Nota la difficoltà di quelle scelte. Il lettore è preoccupato assieme al personaggio per le conseguenze che potrebbero avere. Le scelte veramente difficili sono le migliori e sono i cosiddetti “dilemmi tragici”.

Il dilemma tragico è tale se il protagonista dovrà scegliere qualcosa e qualsiasi cosa sceglierà causerà un grave danno (dal proprio punto di vista). Non tanto il male minore, più qualcosa di simile a mali equivalenti e di cui non potrà rifiutare la scelta (il rifiuto stesso sarà una scelta dannosa). Nel dilemma tragico non ci sono scappatoie.

La scelta non era tragica quando il poliziotto metteva le dosi di eroina nella casa del presunto spacciatore, ma lo diventa quando deve scegliere di continuare a mentire, e mandare così in galera un innocente, pur di non finire lui in galera.

Magari il suo capitano ha intuito qualcosa e sta cercando di dargli una via di fuga, insabbiando tutto e salvando capra e cavoli, evitando poi la galera al tizio tramite lo smarrimento di qualche carta o una cavillosa irregolarità inventata nella perquisizione… ma nella migliore delle ipotesi, se non in prigione, il poliziotto avrà la carriera distrutta.

Cosa sceglierà, il male per l’inno­cente o il male per sé? La sua vita non sarà più la stessa: da eroe della lotta al crimine con metodi “pericolosi” a malvagio puro e semplice.

Non è un dilemma tragico se non fa soffrire in qualche modo il personaggio. È un dilemma tragico se in piena invasione degli zombie che hanno sfondato finestre e porta, due compagni del protagonista lottano con i morti e lui può intervenire per salvarne solo uno e sacrificare così l’altro.

Questo dilemma è presente nel primo episodio del videogioco Walking Dead e ha ripercussioni grosse, tangibili e chiare sui due episodi successivi, visto che il personaggio che si salverà continuerà a interagire, in modo molto diverso in un caso o nell’altro, con il protagonista.

Non è un dilemma tragico se mi offrono 10.000 euro per ogni volta che faranno saltare una supernova dall’altra parte dell’universo, cancellando interi sistemi abitati da civiltà aliene: non li conosco, non me ne frega nulla, datemi i 10.000 euro che invece mi fanno comodo. Come nella frase attribuita a Stalin: un morto è una tragedia, un milione sono statistica.

Un dilemma tragico famoso è quello di Agamennone in Ifigenia in Aulide di Euripide: dovrà sacrificare sua figlia per soddisfare Artemide e salvare il proprio esercito. O l’esercito o la propria figlia: non può salvare entrambi. La decisione per Agamennone è tragica e due Agamennone si confrontano: è più importante Agamennone-Padre o Agamennone-Condottiero? Conoscendolo, è evi­den­te che sceglierà la seconda.

E la sceglie con fin troppa facilità, togliendo tragicità alla questione: invece di disperarsi per l’ingiustizia di ciò che è costretto a sacrificare, si abbandona quasi con ferocia all’idea del sacrificio come qualcosa di “giusto” (ma per lo spettatore la scelta rimane tragica, anche se Agamennone è un po’ stronzo e la giustifica). Al lieto fine per la povera Ifigenia ci pensano poi gli Dei, come ricorderete.

E il caso di Oreste, figlio di Agamennone? La norma, accettata dagli Dei stessi, impone che il figlio debba onorare i genitori e questo impone che non possa far loro del male e che debba vendicarli. Ma quando è sua madre, Clitennestra, che ha ucciso suo padre, Agamennone, cosa può fare Oreste?

Sia agendo uccidendo la madre sia rifiutando di vendicare suo padre, avrà disatteso il proprio dovere di onorare i genitori! Cosa sceglierà l’eroe tragico? Ucciderà la madre e sfiderà la terribile vendetta delle Erinni, dimostrandoci così quanto era grande l’amore per (quello stronzo di) suo padre?

Pensiamo anche solo al dilemma finale in Abaddon di Giuseppe Menconi. No, non farò spoiler qui, basta dire questo: fidarsi del male e divenire il male per salvare la propria famiglia, condannandone molte altre? Questo elemento di scelta è stato fondamentale per il coronare il gradimento dell’opera, nel parere di diversi lettori.

In conclusione…

  • Morale è (anche) convincere i lettori che il male sia la scelta migliore.
  • Morale è (anche) far loro desiderare come giusti soprusi e delitti, magari la tirannia.
  • Morale è (anche) far loro desiderare il male minore, per poi scoprire lentamente che è quello peggiore.
  • E l’apice di una grande retorica è poi farli pentire per la propria grettezza e cecità. Usare la catarsi narrativa per vivere il desiderio populista della tirannia come “governo forte” (o polizia forte) e vederne le conseguenze, per farsi due domande poi quando andranno a votare nella vita reale.

Sbattere in faccia al lettore il lato oscuro dell’animo umano, farglielo abbracciare e poi farlo pentire di quanto sia stato sciocco e meschino, nonostante si considerasse fino a ora una persona “buona”.

Questo se si vuole fare narrativa che porti il dramma della scelta al suo massimo potenziale, letteratura che segni chi la legge, ma nulla vieta di pensare storie più semplici dove il Bene e il Male (o i diversi “livelli di grigio”) sono separati in modo netto e il lettore non è costretto a riflettere sull’ambiguità etica che sta dentro a ogni uomo e sulla complessità del mondo reale in cui, spesso, le uniche scelte sono solo gradazioni di male.

La distinzione chiara tra Bene e Male è tipica dei techno-thriller (settore che smuove quantità enormi di soldi, si pensi a Clancy) o nella fantascienza militare. E nelle religioni. In realtà in buona parte della narrativa, anche molto “seria”, è normale che si arrivi a tali semplificazioni, o poco ci manca: la complessità di cui abbiamo parlato, proprio perché difficile da ottenere, spesso non viene nemmeno tentata dagli autori…

… ma nulla vieta a te di provarci!

 

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