L'Arco di Trasformazione del Personaggio: la Storia in Tre Atti

[Questa è la decima lezione del Corso Base di Sceneggiatura: se hai perso l'introduzione al Corso Base di Scrittura e Sceneggiatura, ti consiglio caldamente di leggerla!]

 

Abbiamo visto come sviluppare la tridimensionalità del protagonista attraverso una storia basata su tre tipi di conflitto, e abbiamo visto come sfruttare il punto di vista tematico per chiarirsi le idee sul difetto del personaggio, sugli antagonisti e sulle caratteristiche che rappresentano entrambi. Proseguiamo con gli elementi della storia nel suo svolgimento.

Recuperiamo l’immagine che mostra l’arco di trasformazione.

Immagine tratta dal saggio “L’Arco di Trasformazione del Personaggio” di Dara Marks, Dino Audino Editore. Leggetelo!

Prima di tutto possiamo notare che la storia, seguendo il modello classico, è divisa in tre atti ovvero tre divisioni del tempo da bilanciare per contenere inizio, svolgimento e fine, senza che nessun aspetto prenda il sopravvento rubando troppo tempo alla storia. In realtà noi analizzeremo le storie basandoci molto sullo spartiacque del “midpoint”, per cui a tutti gli effetti staremo ragionando come se vi fossero quattro atti visto che la prima metà del secondo atto e la sua seconda metà hanno significati narrativi molto diversi.

I tre atti sono bilanciati idealmente quando abbiamo il 25% della storia sul primo, il 25% sul terzo, e un 50% sul secondo, quest’ultimo ripartito il più equamente possibile tra eventi precedenti e successivi al midpoint. Questi sono numeri ideali, grossomodo, e vanno considerati più come numero di scene drammatiche scritte che di esatte parole usate.

Nel primo atto bisogna presentare ambientazione, vicenda, personaggi, e questo richiede più tempo (più parole per pari contenuto drammatico della scena), mentre il terzo atto è dove tutto è noto e ci si limita ad andare verso la sfida finale e la risoluzione, per cui è normale che ci voglia meno tempo a far capire tutto.

Un bilanciamento reale può facilmente essere più verso il 30-50-20 in percentuale di minuti di film o di parole scritte. Soprattutto se scrivi fantasy o fantascienza, in cui nel primo atto devi anche presentare parecchie delle particolarità fantastiche dell’ambientazione.

I tre atti sono divisi da due punti di svolta che cambiano radicalmente la storia:

  • nel primo caso dicendo cosa è veramente in ballo e alzando il livello di pericolo;
  • nel secondo caso facendo avvenire la cosa peggiore possibile che potrebbe accadere al personaggio.

l secondo punto di svolta alza il livello di difficoltà della sfida al massimo, costringendo la storia ad andare verso la fase finale. I due punti di svolta permettono di distinguere in modo chiaro i tre atti.

Essendo elementi di confine, io consiglio di calcolare gli spazi vedendo i punti di svolta come situazioni che avvengo sovrapponendosi tra la fine di un atto e l’inizio del successivo.

D’altron­de, come detto, 25-50-25 e 30-50-20 sono indicazioni di massima, giusto per far capire perfino ai peggiori gonzi che se si fanno 90-5-5 avremmo un film porcata con 90 minuti di preparazione e solo 10 in cui la storia entra nel vivo sul serio.

Se avete una storia con 23-46-31 non succede un disastro, anzi, probabilmente non se ne accorge nessuno! Potrebbe anche essere necessario fare apposta un terzo atto un po’ più lungo del solito, e ho lavorato con un mio scrittore a un romanzo fantasy che ricadeva in questo caso (La Mia Vita con le Blatte, di Simone Corà) in cui il bilanciamento è proprio 23-46-31, ma devono esserci delle necessità tecniche per farlo.

In quel caso avevamo pochi elementi fantastici nel primo atto (quindi un 30 non serviva) e il bisogno di reimpostare l’ambientazione nel terzo atto, quando gli elementi fantastici aumentavano di colpo (quindi un 20 non sarebbe bastato).

Le necessità di presentazione di primo e terzo atto si sono ribaltate. Vedi come sono i principi a determinate le regole? Non ci fissiamo sulla regoletta del 30-50-20, ma usiamo il principio da cui nasce quella regola di bilanciamento e otteniamo il caso reale specifico “anomalo”.

Cercate sempre di puntare alle proporzioni ideali: saranno gli accidenti della scrittura e i bisogni specifici della storia a rendere il tutto un po’ meno bilanciato, che lo vogliate o no. Se partite senza puntare a fare giusto, vi verranno delle mostruosità sbilanciatissime o, peggio ancora e rischio più reale, vi dimenticherete di usare gli elementi dei diversi atti come guide per dare un senso alla storia.

Primo Atto

Il primo atto ci presenta gli eventi che obbligheranno il protagonista a dover affrontare la minaccia esterna che lo colpisce, e quindi l’aspetto che non è più in equilibrio nella sua vita. Questa è la fase in cui il personaggio non ha idea del reale pericolo che dovrà affrontare nel climax del terzo atto, non possiede ancora le informazioni per trionfare e non sa nemmeno di dover cambiare mentalità.

La Marks lo indica come un atto dove un po’ tutto è sconosciuto, e l’ideale è ragionare sugli elementi della storia pensando a cosa il protagonista ignora.

Qui presentiamo lo status quo del personaggio subito prima che la storia entri nella sua vita. Basta davvero pochissimo per farci un’idea di massima su chi sia e cosa faccia. Il più rapidamente possibile arriviamo all’in­ci­dente scatenante, dove la storia inizia a introdursi nella vita del personaggio: un evento a cui il protagonista magari non dà molto peso, non pensa lo riguarderà personalmente (o lo sottovaluta), ma noi capiamo che è da qui che partirà tutto.

Giusto per capirci meglio, Luke Skywalker in Star Wars: Episodio IV può fingere che l’Impero non sia un problema per lui, ma noi abbiamo visto cosa sta succedendo e sappiamo che i nuovi droidi che si è procurato sono ricercati. L’ignoranza di Luke non gli permette di comprendere il pericolo per lui e i suoi cari.

Segue la chiamata all’azione, ovvero il momento in cui il personaggio si trova di fronte all’idea di dover fare qualcosa, e che la storia lo riguarda. Può accettare di agire subito o può negare ancora, per sfuggire alla responsabilità.

Luke per esempio declina l’invito di Obi-Wan a seguirlo per lottare contro l’Impero e a cambiargli i pannoloni negli anni del declino, in cambio di un addestramento Jedi: la coltivazione di sassi nella fattoria dello zio, che ha tanto bisogno del suo aiuto (ma non voleva scapparsene fino a poco prima per divenire un pilota?), fornisce un’ottima scusa per farsi i cazzi propri.

Arriva il momento determinante, ovvero il momento in cui noi capiamo di cosa la storia parla perché scopriamo qual è il difetto del personaggio. È importante essere chiari col pubblico, ma senza far dire in modo esplicito a nessun personaggio quale sia il difetto a meno che non sia totalmente sensato e realistico.

In Rocky, per esempio, l’allenatore che recrimina dicendogli che ha perso la voglia di vincere, che è una scamorza, è naturale e va benissimo. Cercate solo di non tirare troppo la corda: se potete mostrare il difetto rendendolo ovvio dalle azioni, senza usare un dialogo, è come sempre molto meglio. Le azioni devono parlare, non le parole.

Non fissatevi sulla posizione di questo evento: idealmente è collocato dopo la chiamata, per i motivi tecnici che spiego nel mio Corso Avanzato quando analizzo l’eleganza del primo atto “perfetto”, ma può essere noto anche prima, come parte della presentazione iniziale che include l’incidente scatenante. Oppure possiamo scoprirlo più tardi, nel contesto degli eventi del primo punto di svolta (ma questo lo sconsiglio: meglio sapere il difetto presto che saperlo tardi).

Primo punto di svolta. Arriviamo a quando il gioco si fa duro. Ora il protagonista si trova di fronte a un livello di pericolo aumentato e la posta in gioco deve, idealmente, essere dichiarata qui: per cosa lotta il protagonista, ma soprattutto cosa perderà se non lotta?

Se il protagonista prima non ha accettato di agire, di fare qualcosa per affrontare gli eventi, ora dovrà farlo: o entra in gioco e la storia prosegue, o fa “ciao ciao”, rinuncia alla posta in gioco e il film è finito a sorpresa al minuto 32.

Il protagonista riceve un brusco risveglio: la vita fa schifo e dovrà fare qualcosa o sarà fregato. Di solito a questo punto è molto incazzato, o deluso, e capisce di avere un problema dentro di sé, anche se lo nega con gli altri e non ha ancora la forza di cambiare la propria vita.

Come chi sa in astratto di avere un problema con l’alcol, un problema che un giorno lo distruggerà… ma quel giorno è lontano (forse) e bere è piacevole. Può smettere quando vuole, è solo che ora non vuole: è questo che racconta agli altri.

Non confondete un personaggio che lotta per non cambiare, per non accettare i fatti, con uno che ha “rifiutato” l’azione: se sta agendo nell’ambito della storia invece di scappare fuori dall’ope­ra, ha accettato di partecipare.

Magari la sua storia riguarda proprio la lotta di una persona che tenta di difendere le cose false in cui crede, senza accettare la realtà che ha di fronte: guarire gli zombie marci invece di ammazzarli nonostante l’evi­dente pericolo, parlare con gli alieni antropofagi per risolvere il problema di incomprensione tra specie diverse invece di nuclearizzarli ecc.

Nel mio Corso Avanzato il primo atto è quello più importante, a cui dedico più lezioni. Padroneggiare i concetti di empatia e di posta in gioco, che Dara Marks non spiega e che non esistono in nessun manuale a me noto nel modo in cui io li spiego (unendo concetti provenienti da diverse fonti), è fondamentale per realizzare un inizio davvero solido.

È il primo atto a far decidere al lettore se continuerà a leggere o meno, e di conseguenza è quello con più elementi da curare. Anche il finale del terzo atto è importante, ma se il lettore ci arriva significa che almeno ha terminato l’opera… qui invece stiamo parlando proprio di fare in modo che continui a leggerla. Siamo nella fase più delicata.

Secondo Atto

La prima metà è quella che la Marks chiama esaurimento, in cui avviene la spinta verso il punto di rottura: in pratica il difetto fatale del protagonista, il suo vecchio sistema di sopravvivenza, arriva a esaurire ogni ultimo brandello di utilità e il protagonista è obbligato ad accettare di dover cambiare.

È importante che il cambiamento nel midpoint sia credibile e possibile, grazie a una costruzione graduale che spinga il protagonista sempre più verso quel risultato:

  • può essere che il protagonista cambi a poco a poco fino a farcela, perché ogni piccolo passo seppur non sufficiente a risolvere i problemi comunque lo aiuta ad arrivare al risultato nel midpoint (da codardo a coraggioso passando nelle fasi intermedie);
  • oppure può essere che il personaggio si trovi spalle al muro, aggrappato al suo difetto fino all’ultimo senza mollarlo, e ora sia obbligato a fare ciò che non avrebbe mai fatto se avesse potuto evitarlo. Senza più vie di fuga, accetta di cambiare!

In Abaddon il protagonista viene sconfitto nella prima parte delle vicende del midpoint, in cui succede qualcosa di simile a un’esperienza di morte (che sarebbe secondo punto di svolta), ovvero la crisi più grave mai vista fino ad allora, ma senza esserlo per davvero (infatti non è davvero l’esperienza di morte).

La sconfitta è così grave da metterlo spalle al muro, prima a livello di conflitto esterno (prima parte, lo scontro disastroso), a cui segue una crisi a livello di relazione (il suo migliore amico gli si rivolta contro e gli rinfaccia la verità sul suo essere solo un codardo), da cui viene il cambiamento interiore: smascherato e senza più alcuna giustificazione dietro cui nascondersi, esposto alla verità su cosa è diventato, la vergogna e il dolore spingono il protagonista a ritrovare il coraggio che aveva perduto.

Ci sono diversi modi di gestire il midpoint. Non c’è una sola formula, e storie diverse richiedono soluzioni diverse, l’impor­tante è che col midpoint il personaggio abbia un importante cambio di prospettiva, ovvero un momento di illuminazione.

Di solito questo equivale a una nuova consapevolezza, appunto: scoprire la verità, anche su sé stessi, e grazie a questo trovare la forza dentro di sé per usare le proprie capacità al meglio e iniziare a vincere già nel midpoint stesso oppure, come avviene in Abaddon, nella seconda metà del secondo atto.

Eventualmente il cambio di prospettiva può essere legato anche a una rivelazione legata alla natura dell’an­ta­gonista (scoprire chi è il vero nemico, oppure qual è il suo piano o il suo punto debole o altro) e soprattutto serve a portare al massimo livello la posta in gioco.

Dal midpoint in poi il pericolo deve aver raggiunto l’apice a livello qualitativo, anche se non quello a livello di difficoltà assoluta da superare. Da qui siamo nella fase di caduta: i problemi trascinano nel pieno della loro forza il protagonista.

In Abaddon si parla di sopravvivenza contro mostri alieni, e con le vicende del midpoint diventa evidente che i pericoli dell’astronave sono in grado di spazzare via il protagonista e i suoi soldati. Da questo momento siamo sicuri che poter morire è quasi una certezza, non è solo un’eventualità tipica del lavoro di un soldato in territorio ostile.

Nella seconda metà del secondo atto le vicende andranno meglio grazie al ritorno alla “normalità”, al coraggio, del protagonista, eppure i pericoli saranno oggettivamente molto maggiori… ma soggettivamente saranno divenuti meno gravi ora che il protagonista ha smesso di essere un “codardo” e può affrontarli.

Ricordate le parole chiave di cui abbiamo parlato prima, per descrivere gli aspetti del protagonista? Ecco, ora si ribaltano: la codardia diventa coraggio, la mancanza di fiducia in sé stessi diventa fiducia, la falsità diventa onestà, o qualsiasi altra cosa la storia preveda.

Ricordate: il cambiamento deve suonare credibile, serve una costruzione graduale del suo avvenire tramite piccoli passi (consiglio qui un midpoint vincente, come in Caligo) oppure tramite un’erosione sempre più grave del vecchio sistema di sopravvivenza a cui ci si aggrappa fino al trauma definitivo che causa il cambiamento (midpoint con sconfitta iniziale, come in Abaddon).

In Abaddon manca il momento di grazia, presente invece in Caligo. Il momento di grazia è un periodo di pace, di senso di vittoria, di tranquillità dopo i pericoli gravissimi del midpoint.

Di norma il momento di grazia ha senso come premio e occasione di soddisfazione solo se uno ha vinto nel midpoint, ed è meno facile (ma non impossibile) da collocare se il personaggio è cambiato grazie a una grave sconfitta. In Abaddon sarebbe stato del tutto fuori luogo. La Marks stessa lo indica come elemento facoltativo, seppure consigliato.

Dopo questa fase apparentemente vincente del secondo atto, il personaggio scende nel cuore del pericolo, sempre più a fondo, e arriviamo al secondo punto di svolta: l’esperienza di morte, ovvero succede la cosa peggiore possibile che potrebbe accadere. Morte non per forza in senso fisico, a meno che la storia non parli di “sopravvivenza” (e allora il personaggio può trovarsi a un pelo dal morire), ma come perdita gravissima.

In Gente Comune l’esperienza di morte di Conrad, il ragazzino che ha tentato il suicidio, è la scoperta che una sua amica conosciuta in ospedale si è tolta la vita. Conrad era riuscito a cambiare, aveva imparato a sfidare l’ostilità dei vecchi amici e della madre, ce la stava facendo, anche grazie al legame con questa amica.

Questo colpo è troppo forte e risveglia tutto il senso di colpa ancora dentro Conrad per la morte del fratello annegato, fino a travolgerlo. Sente su di sé la colpa della morte anche per la sua amica, mente a sé stesso incolpandosi per non averla salvata…

Questa è la cosa peggiore che poteva accadere: regredire a come era prima della terapia.

Terzo Atto

L’esperienza di morte va vista come l’inizio di un cambiamento definitivo che si completa nel terzo atto: il cambiamento del personaggio nel midpoint non era ancora perfetto, non era ancora completo, e ora lui viene sconfitto per colpa di questo errore.

Perlomeno in una versione ideale, ma in tante opere non è così: per timore di far soffrire troppo i personaggi, si alza a un livello fortissimo il pericolo, si fa cambiare di nuovo il protagonista per divenire “perfetto” e in grado di scegliere dentro di sé di sconfiggere davvero l’anta­gonista, ma non lo si fa perdere… e questo toglie molta forza alla storia. Soprattutto se già nel midpoint se l’era cavata vincendo.

Il terzo atto comincia con le conseguenze dell’espe­rienza di morte, sviluppando questa sorta di “nuovo midpoint” in una discesa nei meandri più oscuri e dolorosi del suo conflitto interiore.

Se l’eroe è stato sconfitto dall’esperienza di morte, condizione ideale, ci aspettiamo che viva conseguenze dolorosissime, che sia a un passo dall’annientamento e dal ritirarsi di propria volontà dalla storia, rinunciando a lottare.

Non è obbligatorio: l’esperienza di morte può portare a una discesa con conseguenze più motivazionali che distruttive, per cui il trauma viene superato con meno fatica. Però, come detto, è una scelta meno forte, meno drammatica.

Dipende dalla singola storia. Io preferisco che avvenga un trauma fortissimo, al punto da far temere il lettore che possa finire tutto in tragedia. Qualcosa sullo stile di Gente Comune, per intenderci.

Se viene travolto dalla gravità di quanto accaduto, il protagonista sarà demoralizzato, convinto di aver fallito nel proprio cambiamento, e si trascinerà fino a quando qualcosa, il momento di trasformazione, lo porterà a capire che era a tanto così da farcela e che non è tutto perduto.

Capirà fino in fondo che schifo di vita avrà se ora non cambia del tutto e non vince, e sa di potercela fare. Il personaggio cambia la propria prospettiva e ritrova la forza di vincere: è sicuro dei propri mezzi ed è pronto allo scontro finale. Cambia per l’ultima volta, ora davvero in modo ottimale e non più imperfetto.

Non resta che andare nel climax allo scontro finale con l’anta­go­nista (qualsiasi cosa sia: l’ambiente ostile, un nemico umano, un’istituzione ecc.), a cui segue la risoluzione. Nella risoluzione ci aspettiamo di vedere qualcosa che ci farà capire come la vita del protagonista, dopo la vittoria, sarà diversa da come era all’inizio della storia, grazie al suo cambiamento.

In Alieni Coprofagi dallo Spazio Profondo vediamo un Nunzio nuovo, rinnovato, pieno di fiducia in sé stesso, che non ha più bisogno delle allucinazioni in cui vedeva Schwarzenegger per trovare la forza di agire: e ora è perfino in grado di aiutare le persone che soffrono gli stessi problemi di cui soffriva lui all’inizio.

In caso di Tragedia?

Nel caso delle tragedie le cose sono un po’ diverse. A grandi linee si può dire, come dice la Marks, che il midpoint non viene superato, non c’è l’illuminazione con conseguente cambiamento positivo. Questa però è un’affermazione riduttiva: le tragedie sono più complesse di così e limitarsi a negare il cambiamento può rendere piatta la storia. Può esserci un cambiamento in peggio, o un miglioramento apparente che è in realtà una deriva peggiore di prima.

Preferisco discuterne altrove, visto che le mie idee a riguardo sono diverse da quelle di base della Marks e non si tratta di argomenti da Corso Base: ho approfondito andando a esplorare varianti ulteriori, visto che le tragedie mi piacciono molto, e chi è interessato può studiare le mie idee a riguardo nel mio Corso Avanzato.

 

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